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Avevo già pronta una lunghissima recensione che spiegava per filo e per segno quanto trovo abominevole (<--eufemismo) questo film.
Non la riporto sul blog perché ne ho trovata una in sintonia con la mia su uno dei miei siti musicali preferiti, SentireAscoltare.com, e scritta sicuramente meglio :D
Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan (di Larry Charles, Usa 2006) di Giuseppe Zucco
Borat è uno di quei film che meriterebbero la stroncatura perfetta, una sorta di squalifica dal mondo del cinema senza se e senza ma. Non solo è un brutto film, ma è anche lontano anni luce da molta critica che lo ha descritto, di volta in volta, come un brutale sovvertimento delle regole del comico, o come la più estrema parodia della società americana. C’è solo una parola che spiega tutto fino in fondo: trash. E non sarebbe un caso se presto, o perfino già adesso, il film venisse classificato come cult – un deposito da cui attingere battute, situazioni, micidiali volgarità e sgrammaticature varie.
In Italia, un film del genere è apparso nelle sale nel lontano 1977: ma Berlinguer ti voglio bene, diretto da Giuseppe Bertolucci, e interpretato dal giovanissimo esordiente Roberto Benigni, non ebbe la stessa fortuna. Fu un flop al botteghino, e tornò a rivivere più tardi, quando le videocassette portarono il cinema a domicilio. Ma entrambi i film, nonostante le diversità, e il modo sgangherato in cui sono girati, hanno in comune la figura del protagonista: due personaggi – ma soprattutto, due comici di professione – capaci di illum1nare, con un’esplosione sorprendente di oscenità, tutte le bassezze, le debolezze, i pregiudizi che si nascondono , e segretamente alimentano, la modernità.
Borat non è un film politically correct, ma è un assurdo road-movie nel ventre molle dell’America. C’è di tutto, e Sacha Baron Cohen - l’attore/autore che dà faccia e corpo al giornalista inviato dal Kazakistan per girare un reportage sugli Usa - non risparmia niente e nessuno. Il viaggio coast to coast, da New York alla California, gli permette di incontrare mondi e gruppi sociali differenti. E se nella liberale New York gli è più facile prendere di mira gay e femministe, nel profondo sud non può far altro che impallinare eleganti razzisti e commercianti antisemiti. Ma non sono presenti dei veri e propri ritratti. I personaggi secondari che affollano il film vengono restituiti da rapide pennellate e da subito si intuisce che, alla riflessione e alla denuncia, si preferisce il catalogo e la quantità degli stereotipi sui razzismi e i tabù sociali. Certo, a tratti, soprattutto nella prima mezzora, si ride. Non ci si vergogna affatto e anzi, quel ridere, ci rende davvero progressisti: fuori dalla logica opprimente del politicamente corretto, segretamente in sintonia con l’inconscio sociale e le teorie del capro espiatorio.
L’ironia, di questi tempi, è acqua salvifica sull’incendio dei fondamentalismi, la risposta migliore, poiché come sostiene Umberto Eco: “Solo di fronte al riso la situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire ”. Solo che qui non crolla un bel niente, l’ironia non è al servizio della verità, la risata non smaschera e non evidenzia. Borat sembra solo avanzare l’amara certezza che i pregiudizi non scompariranno mai, proprio perchè sono parte di noi, molto di più di quanto siamo disposti ad ammettere.
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